La sicurezza degli operatori sanitari è diventata un’emergenza nazionale che non può più essere ignorata. La recente conferma della condanna nei confronti di un ex direttore generale di un’azienda sanitaria pubblica di Bari dove è stata uccisa una psichiatra per mano di un paziente, ha infatti portato alla ribalta una questione troppo spesso sottovalutata: il ruolo della responsabilità manageriale nella sicurezza dei professionisti sanitari.
Di tutto questo abbiamo parlato lo scorso 7 maggio durante il webinar “Sicurezza in sanità: dalla responsabilità individuale a quella manageriale”: un momento di confronto con medici e legali per capire a che punto siamo arrivati in Italia e da dove possiamo partire per fare in modo che chi si prende cura dei pazienti, si senta tutelato. Una tutela che deve coinvolgere tutti i livelli delle strutture sanitarie.
All’evento hanno partecipato gli avvocati Michele Laforgia e Paola Avitabile, il presidente dell’Ordine dei Medici di Benevento Luca Milano e Vincenzo Antonelli, ordinario di Diritto Amministrativo presso l’Università di Catania e Coordinatore del comitato scientifico di Fondazione Sanità Responsabile.
Il quadro normativo e la svolta del 2020
Il professor Vincenzo Antonelli ha tracciato l’evoluzione legislativa che ha portato la sicurezza sanitaria al centro del dibattito pubblico. La Legge 113 del 2020 rappresenta “un momento di cambiamento e di approccio ai temi della sicurezza degli operatori sanitari”, completata dal decreto legge 137 del 2024. Questo nuovo impianto normativo si affianca al decreto legislativo 81 del 2008 sulla sicurezza sul lavoro e alla legge Gelli-Bianco del 2017.
Il professore evidenzia come la questione presenti due aspetti complementari. Da un lato, ci sono le misure penali che “vogliono avere una funzione tendenzialmente di deterrenza rispetto alla violenza” in tutte le sue forme. Dall’altro, sottolinea che “non è sufficiente intervenire con misure sul piano penale, ma semmai sul piano organizzativo”.
I numeri di un’emergenza sottovalutata
I dati INAIL del triennio 2019-2021 parlano chiaro: quattro aggressioni al giorno su base nazionale. Ma è in Puglia che emerge il quadro più drammatico: un’indagine su 3.210 operatori sanitari tra fine 2023 e inizio 2024 ha rivelato che oltre il 40% del personale sanitario ha subito un’aggressione fisica, non solo verbale, e il 30% ha subito un’aggressione nell’ultimo anno. Il 90% di queste aggressioni proviene da pazienti e loro familiari.
L’Ordine dei Medici di Benevento ha condotto una propria indagine su circa 800 iscritti, scoprendo che solo il 18% non ha mai subito aggressioni verbali, mentre il 62% le ha subite raramente e il 19% spesso. Per le aggressioni fisiche, il 78% non ne ha mai subite, il 20% raramente e l’1,1% spesso. Un dato significativo: il 43% delle aggressioni proviene dai familiari dei pazienti, contro il 20% dai pazienti stessi.
Il caso di Bari come leading case
Il prof. Antonelli fa riferimento al caso di Bari, con le sentenze del 2021 del Tribunale e del febbraio 2024 della Corte di Appello, definendolo un “leading case per quanto riguarda il tema della responsabilità manageriale in materia di sicurezza degli operatori sanitari”.
La sicurezza degli operatori va mantenuta a partire da un lavoro serio sulla prevenzione: “Bisogna lavorare su soluzioni che devono prevenire il rischio e quindi nella logica del risk management”. Il professore identifica specifici contesti più esposti: il pronto soccorso, le strutture che trattano patologie psichiatriche o tossicodipendenze, ma anche “ambienti e spazi periferici isolati, pensate una guardia medica oppure anche il semplice studio del medico di medicina generale”.
No alla militarizzazione delle strutture sanitarie
Antonelli conclude con una posizione netta: “Sono contrario ad una militarizzazione delle organizzazioni sanitarie”, sostenendo che “l’ambiente sanitario è un ambiente di cura e le prime risposte devono essere trovate all’interno della relazione di cura. La sanzione è l’ultima delle reazioni che dobbiamo avere verso questi fenomeni, dobbiamo semmai interrogarci sulle cause a monte del problema”.
La doppia valenza della sicurezza
Il dott. Luca Milano, Presidente dell’Ordine dei Medici di Benevento, ha sottolineato come la sicurezza delle cure passi dalla sicurezza di chi le deve erogare. I due aspetti sono intrinsecamente collegati: “Se non c’è sicurezza del personale noi non possiamo garantire cure adeguate ai nostri pazienti”.
Milano ha identificato diverse cause di questa violenza, partendo dalla “carenza del personale” dovuta alla “gobba pensionistica” e alla “fuga dal servizio sanitario nazionale verso il privato”. Ha denunciato con forza il “definanziamento del servizio sanitario pubblico”, affermando che “le finanziarie degli ultimi anni considerano il servizio sanitario pubblico come una voce di spesa da ridurre e non come un bene produttivo su cui investire”.
I dati sono drammatici: “Nell’ultimo decennio il SSN ha perso ben 37 miliardi di euro, 10.000 posti letto, 70 strutture ospedaliere”. Secondo i medici intervistati dalla ricerca, il 57% delle aggressioni è causato da carenze strutturali e decisioni politiche, il 25% dalla deriva sociale e il 14% dalla mancanza di fiducia verso gli operatori sanitari.
La sottostima del fenomeno
Al di là di queste analisi, il fenomeno delle aggressioni rimane sottostimato perché i professionisti sanitari non sempre denunciano: secondo le varie ricerche condotte dall’Ordine campano, dopo un’aggressione, il 58% degli operatori continua a lavorare normalmente. Milano spiega questo fenomeno: “molte volte noi operatori sanitari non ci facciamo più caso […] le aggressioni verbali purtroppo sono veramente all’ordine del giorno, quindi continuiamo a lavorare. Magari pesa per qualche secondo, ma poi devi resettare e andare avanti”.
Per questo il Presidente lancia un appello: “invito tutti gli operatori sanitari a denunciare anche l’aggressione semplice, come quella verbale. Non dobbiamo aspettare di arrivare all’aggressione fisica che poi finisce sulle cronache”.
Conclude con un altro appello, rivolto a tutti: “Stare dalla parte dei medici significa non lasciare soli proprio coloro che non possono permettersi di crollare. Non si tratta solo di benessere organizzativo, non si tratta solo di managerialità, ma di umanità. Occorre restituire senso e dignità ad una professione medica che oggi più che mai ha bisogno di essere sostenuta”.
Il caso Labriola: una tragedia annunciata
L’omicidio della dottoressa Paola Labriola, avvenuto il 4 settembre 2013 in un Centro di Salute Mentale di Bari, rappresenta il caso più drammatico e significativo dal punto di vista giuridico. L’avvocato Michele Laforgia – legale della famiglia Labriola insieme all’avvocato Avitabile – ha definito questo evento un “triste primato per aver generato una specie di leading case italiano”, avvenuto in “un periodo nel quale il tema delle aggressioni, della sicurezza degli operatori sanitari, e del governo del rischio erano ancora negletti”.
Le cause della violenza – in generale – sono complesse da ricercare. Laforgia identifica “una crescente sproporzione” tra le possibilità offerte dalla medicina moderna e “la riduzione delle risorse destinate al servizio sanitario nazionale”. Questo ha creato un paradosso: “si è diffusa l’idea che si può guarire e che non si guarisce sostanzialmente perché non ci sono i soldi per farlo”. Il risultato è un circolo vizioso dove “l’aggressività genera aggressività, la diffidenza genera diffidenza”.
L’aspetto cruciale è la comunicazione. Per Laforgia: “nella stragrande maggioranza dei casi c’è sempre un problema di comunicazione” e spesso arrivano in tribunale “casi in cui la colpa è inesistente, ma c’è un difetto di comunicazione”. Come buona prassi, cita alcuni ospedali pugliesi dove è stata istituita “la figura dell’infermiere di pronto soccorso che ha il solo scopo di gestire il rapporto con i pazienti e i parenti“. Anche se non sempre possono dare “risposte congrue”, “il solo fatto che ci sia qualcuno con cui confrontarsi è un fattore di riduzione del rischio molto consistente”.
Come ha sottolineato Laforgia: “Labriola è costata e costerà milioni di euro in termini di risarcimenti e indennizzi al Servizio Sanitario Nazionale […] quando, probabilmente, con poche migliaia o decine di migliaia di euro si sarebbe potuto evitare tutto questo”.
Il fatto: un omicidio “tristemente annunciato”
L’intervento dell’avvocata Paola Avitabile ha ricostruito il tragico caso che ha portato alla morte della dottoressa Paola Labriola, offrendo una prospettiva giuridica sui profili di responsabilità manageriale: “Le coltellate inferte alla dottoressa sono state 57, le prime quando era ancora seduta alla scrivania… le successive – ben 48 – quando la dottoressa era già stesa per terra esanime”.
Il giudice di primo grado ha definito il crimine “evento tristemente annunciato” perché “fino a pochi mesi prima rispetto alla morte di Paola Labriola… la stessa dottoressa e le sue colleghe avevano denunciato degli episodi di aggressione”. Avitabile ha sottolineato come la tragica morte della dottoressa Labriola fosse stata agevolata dalle condizioni in cui sia lei sia le sue colleghe erano costrette a lavorare ormai da anni.
Il nucleo ispettivo aveva “evidenziato le condizioni di totale inidoneità in cui versava il centro dove mancava qualunque tipo di presidio di sicurezza”. Inoltre: “non vi erano vie di fuga alternative, non vi erano campanelli di allarme, non vi era assolutamente nulla e soprattutto il personale era tutto femminile”. Quest’ultimo aspetto è significativo perché “soltanto un infermiere di sesso maschile è riuscito a disarmare l’uomo. Soltanto di fronte ad una presenza maschile si è arreso”.
Gli “episodi sentinella” ignorati
L’avvocata evidenzia come si fossero “già verificati all’interno di quel centro dei cosiddetti episodi sentinella, tali da far nascere qualche dubbio rispetto alle condizioni di sicurezza”. Oltre a questo: “mancava il documento di valutazione dei rischi. Senza valutazione dei rischi era impossibile verificare la spesa conseguente per poter eliminare o comunque elidere quel rischio. Una quantificazione della spesa che in realtà non era mai stata fatta; quindi, non si poteva dire a priori che quella spesa non fosse sostenibile”.
Avitabile ha descritto un episodio emblematico delle omissioni: “dopo le segnalazioni, l’unica risposta data dalla direzione dell’ASL è stata quella del trasferimento di un soggetto dal reparto di gastroenterologia al centro di salute mentale, ma senza formarlo”. Questo soggetto “non era in grado di assolvere alla funzione per la quale in teoria sarebbe stato messo” e “la sua funzione non è stata deterrente”.
Vittima del dovere
“La dottoressa Labriola è stata anche dichiarata dal giudice del lavoro del Tribunale di Bari vittima del dovere”, cosa che “rappresenta un unicum… poiché in genere vittime del dovere sono i militari” ha aggiunto Avitabile. Il giudice ha parlato di una vera “missione portata avanti dalla psichiatra”.
L’avvocata ha concluso: “Trattandosi di un reato colposo, nessuno, se non l’autore materiale del delitto, voleva questa morte”, ma “è pur vero che a fronte di quelle che per noi sono state delle omissioni macroscopiche si è arrivati a questa tragedia”. Il caso rappresenta un monito su come le “omissioni macroscopiche” in materia di sicurezza possano avere conseguenze drammatiche e comportare responsabilità penali per i manager sanitari.
Verso soluzioni integrate
Questo caso, pur nella sua drammaticità, ha fatto emergere questioni fondamentali per la sicurezza sanitaria che vanno ben oltre i confini tradizionali. È emersa chiaramente la necessità di sviluppare una dimensione comunitaria della sicurezza: non può essere solo responsabilità dei professionisti, ma deve coinvolgere tutta la comunità di cura che opera nei luoghi sanitari.
È proprio questa visione allargata che permette di cogliere quegli “eventi sentinella” così importanti nelle organizzazioni sanitarie. Ma questa cultura condivisa non deve far venire meno le responsabilità specifiche, soprattutto di chi ha potere decisionale e deve acquisire competenze manageriali adeguate per gestire questi aspetti complessi. Il tema trattato, infatti, non si riduce semplicemente alla sicurezza sul lavoro in senso stretto, ma abbraccia una dimensione più ampia che richiede preparazione e consapevolezza.
L’incontro rappresenta il primo di una serie di iniziative che Fondazione Sanità Responsabile intende promuovere per continuare ad approfondire queste tematiche così delicate e necessarie per il miglioramento della sicurezza negli ambienti di cura.
Potete rivedere tutto il webinar qui: