consenso informato

“È solo una firma? No, è molto di più”: perché il consenso informato è un pilastro della cura, non solo della burocrazia

In ambito sanitario, poche parole sono così cariche di significato – e di fraintendimenti – come “consenso informato”. È la firma che precede ogni intervento, la carta che ci fa sentire più protetti, il documento che i professionisti sanitari si assicurano di ottenere prima di agire. Ma cosa c’è davvero dentro quella firma? E soprattutto: cosa c’è nella testa – e nel cuore – del paziente che la appone?

La legge c’è, ed è chiarissima

In Italia, la Legge 219/2017 ha definitivamente chiarito che il consenso informato deve essere documentato in forma scritta, come modalità standard. La legge ammette anche videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare. Il consenso informato, in qualunque forma espresso, è poi inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.

Questo non è solo un dettaglio formale, ma una tutela imprescindibile per i professionisti sanitari, in particolare in sede di eventuale contenzioso medico-legale. Nessuna ambiguità: senza una firma, la prova del consenso – e della corretta informazione – semplicemente non regge. Ma la firma è l’atto finale di un processo, non il processo stesso. E quello che succede prima della firma fa tutta la differenza, sia in termini di relazione medico-paziente sia di effettiva tutela della salute.

Capire davvero: la grande sfida del consenso informato

Diversi studi recenti – che puoi leggere nei link in fondo – mettono in luce un problema tanto diffuso quanto sottovalutato: molti pazienti non comprendono veramente ciò che stanno firmando.

Alcuni dati:

  • Solo una minoranza di pazienti ricorda o comprende pienamente rischi, benefici e alternative dei trattamenti, sia in ambito chirurgico sia nella ricerca clinica.
  • Spesso il modulo non viene letto, o viene firmato frettolosamente, senza un tempo sufficiente per riflettere o fare domande.
  • La soddisfazione per la quantità di informazioni ricevute è mediamente buona (forse perché ci si sente educatamente ascoltati), ma non sempre si traduce in una reale comprensione. Ed è questo il vero nodo da affrontare: cosa ha compreso davvero il paziente?

Il risultato? Un paradosso. Abbiamo un consenso “informato” che… non informa davvero. E questo, oltre ad aprire scenari critici dal punto di vista etico e legale, rischia di compromettere la fiducia nella relazione di cura.

Possiamo (e dobbiamo) fare meglio

La buona notizia è che le soluzioni ci sono, e alcune strutture stanno già sperimentando approcci più efficaci e rispettosi della persona.

Gli studi suggeriscono diverse strategie utili:

  1. Formati alternativi: video, schede semplificate, materiali visivi aiutano a rendere più accessibili le informazioni. E funzionano: aumentano la comprensione e l’engagement dei pazienti.
  2. Approcci multicanale: moduli a punti, siti web interattivi, illustrazioni. Non tutti apprendono allo stesso modo, e diversificare i linguaggi è una forma di rispetto e inclusione.
  3. Ambienti di ascolto e tempo di qualità: un colloquio senza fretta, un tempo adeguato per riflettere, la possibilità di fare domande. E magari valutare attivamente se il paziente ha capito, con domande di ritorno o altri strumenti. Pochissimi lo fanno, ma è lì che nasce la vera alleanza.

Il consenso informato non è un modulo, è un processo

È importante ribadire: il consenso non è solo una protezione legale, ma un atto di rispetto verso l’autonomia del paziente. È la concreta possibilità per ciascuno di scegliere, di decidere, di comprendere. Non un timbro per evitare cause, ma un momento alto della relazione di cura. Perché se vogliamo davvero curare, dobbiamo partire dal comprendere. E per comprendere, serve tempo, chiarezza, empatia.

La legge ci dice che la forma scritta è fondamentale. Ed è giusto così: è una garanzia, per tutti. Ma se ci limitiamo a raccogliere firme, abbiamo perso l’occasione di costruire un’alleanza.

Il consenso informato è una conversazione, non un contratto.

È lì che si gioca la medicina che cura davvero: nella capacità di trasformare l’informazione in comprensione, e la comprensione in scelta.


Fonti utili per approfondire: